Raffaele Masto

Reportage Dalla Guerra

Sudan, regione del Southern Blue Nile. La pista che collega Yabuz a Kurmuk è un solco di fango che fende la boscaglia per 86 chilometri tra piantagioni abbandonate di sorgo e di sesamo,  arbusti rinsecchiti, maestosi baobab, acacie che con i loro rami spinosi frustano i guerriglieri appollaiati sul cassone delle toyota. Si viaggia tra scossoni che sembrano ogni volta far ribaltare la jeep e soste forzate dovute ai frequenti impantanamenti. Quando accade i guerriglieri saltano giù dal cassone e si gettano nel fango con le loro mimetiche lacere per liberare le ruote sprofondate nei solchi melmosi della pista. Sono poco più che ragazzini, alcuni con i piedi nudi, non molto diversi da quelli che, nelle soste più lunghe, sbucano come fantasmi dal paesaggio che sembrava deserto. Spuntano silenziosi assieme a uomini vestiti di stracci, frotte di bambini seminudi che piangono alla vista dell'uomo bianco, donne con i recipienti in testa e le collane di perline. A volte offrono acqua e poi si fermano ad osservare, sembrano statue alle quali lo scultore ha voluto disegnare una lieve espressione di stupore nei lineamenti del viso. Sono le figure di un Africa antica che non ha collegamenti con il resto del mondo se non i rari passaggi di questi piccoli convogli militari.
Arriviamo dopo otto ore di viaggio, quando il sole sta ormai tramontando. Kurmuk era una cittadina di trentamila abitanti, oggi è praticamente un avamposto militare: edifici diroccati sui quali si vedono ancora i colpi dei proiettili, pochi civili, un mercatino striminzito dove si vendono prodotti per la semplice sussistenza: sale, zucchero, fagioli secchi, cipolle rattrappite, minuscoli pomodorini. Manca la frutta ed è strano in Africa dove manghi e papaye spesso crescono selvatici sulla strada, a disposizione di tutti. Comprendo questo mistero quando il comandante Malik, che è anche il governatore civile di questa regione, ci raccomanda di non muoverci senza una scorta, di non uscire dal centro abitato e di percorrere solo le strade battute. La città è praticamente circondata dalle mine disseminate dai governativi, un vero e proprio assedio silenzioso, senza soldati, che impedisce alla popolazione di utilizzare il territorio, di coltivare e di commerciare. Ci si deve accontentare di ciò che cresce tra le macerie e dei pochi prodotti che i militari destinano ai civili, ed è quasi la fame.
Il Southern Blue Nile è una sorta di simbolo, oggi, della guerra tra il nord e il sud di questo paese. Qui si concentrano le principali ragioni politiche, economiche e strategiche di un conflitto che è il più lungo e cruento del secolo appena trascorso: con brevi e precarie pause dura dal 1958, anno dell'indipendenza, ed ha già provocato quasi tre milioni di morti e altrettanti profughi.
Sulla carta è un conflitto religioso tra il nord, arabo e musulmano, e il sud, nero e cristiano-animista ma in gioco c'è ben altro. Il petrolio innanzi tutto. Da quando, l'anno scorso, è stato inaugurato il terminale di Port Sudan, sul Mar Rosso, che riceve il greggio dell'Upper Nile, il Sudan è entrato, di fatto, nel club dei produttori. Ma i guerriglieri continuano a minacciare i 1500 chilometri di oleodotto che attraversano un territorio sconfinato e incontrollabile.
E non c'è solo il petrolio tra le cause della guerra. Ad un centinaio di chilometri a nord di Kurmuk c'è una città che si chiama El Damazin, controllata dai governativi che vi hanno predisposto una linea di difesa insuperabile: mine, carri armati e sofisticati sistemi di allarme. Ciò è comprensibile se si pensa che, oltre ai ben trecentomila abitanti, c'è una grande diga sul Nilo Azzurro che fornisce tutta l'energia necessaria alla vita di Khartoum.
Poco meno di quattro anni fa la linea di difesa dei governativi passava  proprio da Kurmuk ma il 12 gennaio del 1997, con una azione a sorpresa, i guerriglieri dell'SPLA comandati da Malik riuscirono a conquistarla. Fu una battaglia campale durata dalle cinque del mattino fino alle tre del pomeriggio. Sul campo, da una parte e dall'altra, rimasero molte vittime, quasi tutti ragazzini. Malik adottò l'unica strategia efficace in queste regioni dimenticate da Dio e dagli uomini, dove le convenzioni internazionali non valgono nulla; mandò avanti, sui terreni minati, frotte di soldati che gli aprirono un varco per entrare in città, poi con il grosso delle forze prese d'assalto la guarnigione militare fino ad annientarla.
Malik è una specie di gigante alto due metri, decisamente pingue, in un paese di magri. Veste una delle poche mimetiche integre di tutta la regione con le insegne rosse dell'SPLA e gli anfibi lucidi legati fino al polpaccio. Una volta era insegnante di lingua araba all'università di Khartoum, poi entrò nell'esercito e con lo scoppio della guerra scelse di stare dall'altra parte. Oggi ha il comportamento concreto e razionale del militare di carriera: "Qui non arriveranno mai gli sminatori - dice - non ho altra scelta che mettere a rischio i soldati meno addestrati e meno validi, è la guerra".
Con la conquista di Kurmuk, Malik ha realizzato un grosso bottino: è diventato una spina nel fianco del regime di Khartoum e come tale ha acquistato prestigio nella complicata e rissosa gerarchia dei comandanti dell'Spla. Ha requisito una gran quantità di armi all'esercito governativo, compresi carri armati e pezzi di artiglieria tanto che la guerra nel Blue Nile, pur restando il classico conflitto africano a bassa intensità, è diventato uno scontro tra due eserciti, ed ha fatto anche un bottino umano.
Si tratta di poco meno di duecento prigionieri, anche loro poco più che bambini. Si chiamano Ahmed, Yusuf, Alì, Mohamed. Sono neri, ma hanno i lineamenti arabi, sono rinchiusi in un edificio dai muri gialli e scrostati circondato da un grosso spiazzo recintato con il filo spinato. All'interno due grossi stanzoni senza finestre, bui e puzzolenti. Stanno tutti ammassati  lì, in condizioni igieniche spaventose. Durante il giorno, nel minuscolo cortile, su grossi pentoloni alimentati da un fuoco di legna si cucinano i pasti, una indecifrabile sbobba marrone che bolle come una polenta. Mentre il giornalista li guarda, uno di loro ad un certo punto sventola per aria un grosso topo morto che tiene per la coda. E' eccitato per la cattura, sorride, e un attimo dopo lo scuoia, lo pulisce delle viscere e lo abbrustolisce sul fuoco.
I prigionieri una volta al giorno vengono inquadrati nello spiazzo recintato con il filo spinato per cantare le canzoni militari dell'Spla. Lo fanno con grande impegno, urlando a squarciagola, marciando e battendo i piedi ai comandi dei soldati armati che li controllano. Quando si tratta di rispondere alle domande del giornalista parlano con un filo di voce. Dicono di essere stati mandati a combattere contro chi voleva distruggere l'Islam, ma che solo ora si rendono conto di essere stati imbrogliati. Hanno parole di elogio per l'Spla e si dicono pronti a combattere nelle sue fila.
Forse sono risposte obbligate, ma è certo che gli interessi coincidono: per Malik tenerli prigionieri è un costo inutile, bisogna dargli da mangiare e non servono a nulla. Per loro combattere a fianco dei vecchi nemici significa la libertà, uscire da quelle celle maleodoranti dove anche mangiare un topo è un lusso. Non ce lo ha detto nessuno, ma non è difficile dedurre che probabilmente questi ragazzi cambieranno presto i loro cenci consunti con una mimetica lacera saranno primi ad avanzare sui campi minati verso El Damazin. Effettivamente nella Kurmuk conquistata dall'Spla c'è libertà di religione. Ci sono i cattolici, gli animisti e anche i musulmani. Al mattino, all'alba il grido del muezzin che chiama i fedeli alla preghiera si mescola con i canti ritmati dei soldati che fanno il training, corrono per le strade scandendo slogan militareschi mentre nella moschea si riuniscono gli uomini con la veste bianca a salmodiare i versi del Corano. Per loro non è cambiato nulla,  i guerriglieri cristiani dell'Spla non hanno impedito di professare l'Islam.
Ciò che è cambiato è il peso che la religione ha nella vita quotidiana. Per comprenderlo basta andare in quella che una volta era la scuola coranica, due edifici diroccati poco più grandi di un container. Un tempo c'erano sei maestri e trecento allievi, si imparava a memoria il libro sacro e la lingua araba. Oggi è rimasto un solo insegnante e le bambine, una cinquantina. Non devono portare il velo ma stanno in piedi con i loro corpicini magri e gli occhioni grandi in un aula vuota, senza banchi, senza quaderni, senza penne. I maschi hanno tutti sfruttato l'unica occasione di lavoro che offre Kurmuk, sono nel vicino accampamento militare, arruolati nell'esercito di liberazione. Il maestro insegna una sola materia, l'inglese. La gente vuole disperatamente imparare questa lingua, la considerano un legame con il mondo e poi non è l'arabo, che qui tutti conoscono ma resta la lingua del nemico del nord.
Per il resto della popolazione non è cambiato granchè: le mine, la guerra, la fame, i soldati c'erano prima e ci sono anche adesso. E Kurmuk resta isolata dal resto del mondo.
Nel Southern Blue Nile nemmeno le agenzie dell'Onu hanno il permesso per portare aiuti umanitari. Khartoum, che deve autorizzarli, teme che attraverso quella via possano arrivare armi e sostegno ai ribelli di Malik. Per questo motivo non arrivavano nemmeno giornalisti dal 1983, anno in cui riesplose la guerra tra il nord e il sud. Da allora la popolazione civile è praticamente abbandonata a se stessa. Per arrivare qui bisogna assumersi qualche rischio e partire da Lokichokio, in Kenya, a ridosso del confine con il Sudan. Dopo circa tre ore di volo il piccolo velivolo punta il muso verso l'unica pista in terra battuta della regione, nei pressi del minuscolo villaggio di Yabuz, prudentemente lontano dal fronte. Quando vi atterra si è già nel territorio di Malik, dove non c'è nemmeno una strada asfaltata, solo piste fangose e non sempre percorribili, e pochissimi veicoli a motori, gli unici sono i vecchissimi e sgangherati fuoristrada in mano ai guerriglieri.
Che la regione sia isolata lo testimonia il fatto che qui l'economia del dollaro non è conosciuta. Le poche transazioni avvengono in piastre sudanesi, la moneta di Khartoum, o in Birr etiopici. La gente conosce il cambio tra queste due monete ma non quello tra queste e il dollaro. E del resto non c'è alcun posto dove il biglietto verde possa essere speso, non un hotel, un locale, un emporio dove arrivino prodotti occidentali.
Eppure il Southern Blue Nile è ricco e fa gola al governo di Khartoum come ai comandanti guerriglieri. C'è l'oro e, pare, in grande quantità e facilmente estraibile. Prima della guerra era sfruttato da una società mista, la Sudan-China Gold. Vicino a Kurmuk ci sono ancora le baracche del cantiere abbandonato dove alloggiavano i minatori. Sono in rovina ma poco lontano il territorio è diventato una specie di miniera a cielo aperto dalla quale ogni giorno vengono alla luce pepite grandi come una arachide.
Ad estrarle, a mani nude, sono decine di persone, intere famiglie, che lavorano in condizioni impossibili. Le donne fanno la spola per tutto il giorno al fiume dove si caricano sulla testa pesanti recipienti di acqua per inumidire il terreno sul quale gli uomini scavano delle buche larghe quasi un metro e profonde anche dieci. Vi stanno sepolti per ore, raspando il terreno al buio e spedendo in superficie, con un cestino legato ad una   fune, la terra che rimuovono e che la donna setaccia fino a quando un luccichio rende fruttuosa la loro giornata. Spesso succede che il cunicolo frani seppellendo vivo il malcapitato, ma il lavoro non si ferma, tanto che per diversi chilometri quadrati il territorio è una specie di gruviera.
Tanta fatica per un compenso da nulla perchè poi l'oro, in una regione isolata come questa, non è commercializzabile. Ad acquistarlo a prezzi stracciati sono i comandanti dell'Spla, gli unici che periodicamente hanno la possibilità di uscire da questa regione per andare a Nairobi o ad Addis Abeba dove, lì si, l'economia del dollaro vige.



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