Raffaele Masto

Reportage Etiopia-Eritrea
Una cicatrice sull’altopiano

Abdel si accende in viso: "Italiano?" - chiede, avvicinandosi al tavolo. "Si" - rispondo, con una certa sorpresa. Il volto gli si allarga e le labbra si tendono in un sorriso mettendo in mostra una fila di denti ingiallita. Le rughe della sua faccia prendono a vibrare come in una danza senza musica alla ricerca delle parole per spiegarsi. Abdel ha settanta anni ed è il proprietario di un locale sotto i portici, proprio di fronte al vecchio porto di Massawa, sulla costa eritrea del Mar Rosso. Ha capito che sono italiano e non ce l’ha fatta a non avvicinarmi. “Non parlo la tua lingua da molti anni - mi dice - ma la conosco, me l’ha insegnata mio padre, era un ascaro”.
Le prime frasi escono a fatica, poi le sue parole sembrano trovare la fluidità di un tempo e il suo italiano diventa un linguaggio elementare, ma comprensibile e corretto. Fa una certa impressione sentire parlare la propria lingua qui, uno dei luoghi più caldi del mondo, dove nulla ricorda l’Italia: fuori, sotto un sole implacabile, i muri scrostati degli edifici arabeggianti e le viuzze deserte e polverose che portano alla moschea. All’interno del locale le insegne sono scritte in arabo e in tigrino e nella penombra che dovrebbe attenuare la calura l’italiano di Abdel affiora come in un sogno.
Ai tavoli gli altri avventori si dividono tra quelli che mangiano il classico piatto locale di engera e zighinì e quelli che mangiano gli spaghetti. Abdel si offre di servirmi cibo italiano. “Vedrai - dice - non ho dimenticato le ricette”. Accetto e quando le figlie e le nipoti cominciano a servirmi non posso fare a meno di constatare che aveva ragione: spaghetti alla bolognese, incredibilmente cotti al punto giusto, cotoletta alla milanese impanata a regola d’arte e caffè espresso fatto con una vecchia macchina a vapore piazzata sul banco, come nei bar di paese delle province italiane degli anni quaranta. Infine un Fernet - “per digerire” - dice Abdel mentre una delle nipoti, una ragazza di una quindicina di anni con le classiche treccine africane che le attraversano il capo da una parte all’altra, sparecchia con un timido sorriso, visibilmente soddisfatta di aver contribuito alla buona figura del locale e del nonno.

   Arrivare fin qui, da Asmara, la capitale dell’Eritrea, è un avventura indimenticabile. Non si può far altro che percorrere “la strada degli italiani”, tutti la indicano così e consigliano di affidarsi ad un autista esperto, che la conosca. Il mio uomo si chiama Yohannes, una cinquantina di anni, magro e spigoloso come tutti i tigrini dell’altopiano, ha fatto la lotta di liberazione ed è un ex militare. “Asmara like Rome” - mi dice subito scherzando quando lo incontro. E’ loquace e mentre usciamo dalla città mi spiega che la strada che faremo è stata costruita dagli italiani negli anni trenta del novecento ed è ancora oggi l’unica strada che collega l’altopiano e il bassopiano. Yohannes racconta con il piglio del professore, lo lascio parlare anche se le cose che dice le avevo già lette preparandomi il viaggio. Asmara 2400 metri di altezza. Massawa al livello del mare. Distanza in linea d’aria tra le due città poco più di cento chilometri. Indubbiamente quella strada è una grande opera dell’ingegneria italiana. E’ una strada che collega non solo due città, ma due mondi che fino al secolo scorso quasi non comunicavano: quello dell’altopiano etiopico e quello delle coste del Mar Rosso, diversi in tutto: nel clima, temperato ad Asmara dove la potenza del sole equatoriale è smorzata dall’altitudine, rovente a Massawa. Nelle popolazioni, tigrini e amhara di religione cristiano-copta sull’altopiano, afar, cunama, issaq influenzati dalla cultura araba e di religione islamica sul Mar Rosso. Quei cento chilometri erano una barriera geografica e culturale che la strada ha abbattuto e che l’Italia costruì per le proprie mire coloniali sul fertile a vasto altopiano etiopico. Mire che dalla seconda metà dell’ottocento fino alla fine della seconda guerra mondiale sono state un ossessione per le classi politiche che si sono succedute al potere che non volevano essere da meno delle altre grandi potenze coloniali europee.

   Yohannes ha imboccato i primi tornanti e si è fatto silenzioso, mani ferme sul volante, occhi fissi e attenti, quasi assorti, sulla strada. Di li a poco, a mie spese, capirò che quel percorso è una avventura e uno spettacolo al tempo stesso.
Comprendo l’arditezza dell’impresa italiana: questa strada fu costruita tra il 1935 e il 1936, quando ancora le strade asfaltate in Africa erano rare, figuriamoci una in grado di superare in soli 100 chilometri 2400 metri di dislivello. In circa venti mesi di lavoro furono impiegati 17 mila operai. Le cronache parziali di quei tempi raccontano che almeno duecento morirono.
Adesso il mio compassato autista affronta con apparente noncuranza curve a gomito senza protezioni di sorta, nessun guard rail, nessun blocco di cemento separa la carreggiata da strapiombi che sembrano finire al centro della terra. Lui guida con millimetrica precisione, ostentando la sua abilità e mettendo a dura prova le coronarie del suo preoccupato passeggero. In fondo a burroni di roccia nera si intravedono carcasse di autobus o camion che nessuno si è mai preoccupato di recuperare. A lato le vette delle ambe - si chiamano così qua le montagne - si stagliano contro un cielo azzurro intenso sul quale le poche nuvole bianche risaltano come fossero fosforescenti. Stiamo scendendo dai primi contrafforti di un altopiano storico e il paesaggio è formidabile: ogni dettaglio di queste rocce brulle risalta sotto i lampeggianti raggi del sole, la strada stessa è un precipizio, guardando in basso se ne intravede il serpentone con i tornanti che appare e scompare dietro i rilievi di roccia, l'asfalto rimanda bagliori quasi metallici e si ha l'impressione di un fiume che scende tumultuoso a valle.
Guidando Yoahnnes dimostra la sua perizia e il passaggero dopo un po' si rilassa e può dedicarsi ad osservare con attenzione il paesaggio. So che c’è e la cerco scrutando tra le pareti di roccia e infine scorgo una specie di viadotto appoggiato su piloni a volta percorso da due binari che escono come per incanto da una grotta e si infilano, dopo poche decine di metri, in un altra. E’ la ferrovia. Si, perchè gli italiani prima ancora della strada costruirono addirittura una ferrovia per collegare Massawa ad Asmara: 118 chilometri di strada ferrata a scartamento ridotto inaugurati nel febbraio del 1912. Negli anni della guerra di liberazione i guerriglieri utilizzarono binari e traversine per costruire le trincee ma oggi quella ferrovia è tornata a funzionare. Non ha più una utilità pratica e le stazioni sono rimaste quelle dell’epoca. Se, andandole a visitare, ci si astrae per un momento si ha l’impressione di essere tornati indietro nel tempo e di attendere un treno in una delle tante stazioncine della provincia italiana: orologi a quadrante bianco poggiati su pali verniciati di verde, sale d’attesa di prima e seconda classe con le panche in legno, ferrovieri e capi stazione con le divise blu scuro. A vederla da questa prospettiva la ferrovia sembra un gioco per bambini, un plastico da tavola, una miniatura con i binari troppo stretti e le gallerie che sembrano grotte naturali e invece anche questa è una delle opere più ardite realizzate dall’Italia nel mondo.
Dopo oltre due ore di discesa i tornanti cominciano ad essere più dolci e Yohannes riprende ad essere loquace. Si comincia a sentire l’oppressione della calura e dietro le cime più arrotondate delle ultime ambe il cielo è quasi bianco e tradisce la presenza del mare, che ancora non si vede ma se ne avverte la presenza. Infiliamo un lungo rettilineo e dieci minuti dopo ecco la distesa blu scuro del Mar Rosso e i primi edifici diroccati di Massawa. Quando Yohannes arresta la vettura si ha l’impressione di essere in un forno e anche l’acqua del porto, al quale sono ancorate sgangherate imbarcazioni dai nomi arabi, sembra sul punto di mettersi a ribollire sotto le sferzate implacabili del sole.

   Quando ripartiamo Yohannes è sollevato, felice di ritornare nella sua Asmara che, insiste, “è come Roma”. Ci lasciamo alle spalle la fornace di Massawa e lui spinge la vettura che arranca sui tornanti in salita con l’acqua ai limiti dell’ebollizione. Percorrendo questa strada in senso contrario si capisce come i popoli dell’altopiano abbiano potuto resistere per secoli alla penetrazione politica e militare delle civiltà dell’Islam che dominano il bassopiano. Queste montagne sono una barriera formidabile che hanno reso inespugnabili le posizioni dei popoli amahara e tigrini, fieri, ancora oggi, di non essere mai stati colonizzati. Solo la strada - e la ferrovia - degli italiani hanno violato queste montagne con i loro dirupi a picco.
L’arrivo ad Asmara, con l’aria frizzante dei 2400 metri di altitudine, fa sembrare un brutto sogno l’esistenza, a soli cento chilometri di distanza di una città come Massawa. Qui anche il clima favorevole rende operosa la popolazione. Il traffico non è quello caotico delle grandi megalopoli africane, le vetture circolano ordinate rispettando stop e precedenze. Il parco auto di questa città non può che ricordare l’Italia: tra i taxi verniciati di giallo circolano ancora vecchie Fiat 1100 o le successive 124 e 128 dell’azienda torinese.
Guardandomi intorno con spirito di osservazione devo ammettere che l’insistenza di Yohannes sul paragone tra Roma e Asmara ha qualcosa di veritiero: la capitale eritrea ha assorbito molto dalle città italiane. Il centralissimo viale della Liberazione è praticamente il "corso" di una cittadina italiana con la cattedrale cattolica e la scalinata che introduce ai tre portoni di ingresso scolpiti con immagini sacre. A poche decine di metri il cinema Impero. Si chiama ancora così, con lo stesso nome con il quale lo aveva battezzato il regime di Mussolini che pensava in grande, ad un impero che andasse ben oltre gli angusti confini dell'Eritrea e penetrasse nelle piane fertili dell'altopiano coltivate a teff e a sorgo. E se si passeggia sul Viale della Liberazione non possono sfuggire i locali dai nomi italiani: il "Bar Roma" o il "Ristorante Pisa". Nei tavolini all’interno la gente beve il caratteristico thè forte e dolce di questi luoghi, servito nei bicchieri di vetro, ma si può anche ordinare un caffè espresso e riceverlo, senza che nessuno si stupisca, nella regolamentare tazzina italiana e dietro il banco si possono notare le bottiglie di Vov, del Campari, del Fernet. Nelle vie che intersecano il corso si può trovare la bottega del barbiere con le sedie di metallo girevoli o quella del panettiere che sforna brioche e michette.

    Asmara, come tutte le città, è il condensato del territorio che la circonda e se si esce dalla capitale eritrea diventa più difficile trovare i segni lasciati dall’Italia quando, qui, era ancora la “madre-patria”. Chiedo a Yohannes di accompagnarmi e lui accetta entusiasta. Questa volta si tratta di andare esattamente nella direzione opposta a Massawa, cioè all’interno dell’altopiano, un territorio che lui, da buon tigrino, considera suo, verso il quale nutre un certo affetto, addirittura una sorta di intimità. Guida rilassato, mi indica con i nomi le cime delle ambe che incontriamo e noto che ci tiene particolarmente a farmi scorgere i monasteri copti abbarbicati sulle rocce in lontananza; la religione cristiana di rito ortodosso è non solo una caratteristica unica, in Africa, dei popoli dell’altopiano, ma anche un tratto di identità profonda di questa gente.
La strada che stiamo percorrendo porta a Mendefera e poi prosegue fino ad Adi Kwala, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Etiopia e, pur essendo in quota, è quasi in piano. Si insinua con ampie curve tra le pareti delle ambe e in alcuni tratti solca ampie piane coltivate a teff. Le spighe che ondeggiano sotto i raggi del sole danno l’impressione di un enorme tappeto volante trasportato dalla brezza. Yohannes è orgoglioso di mostrarmi il suo paese e quando arriviamo ad Adi Kwala spinge il fuoristrada fino ad una piana dalla quale si vede la frontiera. Me la indica puntando il dito su un corso d’acqua, il fiume Mareb. Inevitabile ricordare che anche quel confine lo hanno fatto gli italiani, fu segnato per la prima volta con il trattato di Uccialli firmato alla fine dell’ottocento dal Negus Menelik e da emissari del governo di Roma. Per l’Italia doveva essere il campo base, una testa di ponte per la conquista dell’intero altopiano, ma ogni volta che i soldati si spinsero oltre subirono cocenti sconfitte, la più clamorosa quella di Adua. L’esercito italiano, dotato di moderni armamenti, fu massacrato da orde di guerrieri guidati dai Ras di Menelik e armati di pochi fucili a colpo unico e da lance, zagaglie e scimitarre.
Guardare quel confine è come osservare una cicatrice. Non lo dico a Yohannes, ma anche questo è il lascito dell’Italia su questa terra: una frontiera che spezza un’entità geografica e culturale unica, che divide popoli simili che hanno sempre combattuto per difenderla. Che si sono battuti per non cedere l’altopiano, i suoi monasteri, le sue ambe, agli stranieri, sia che fossero gli islamici del bassopiano o le potenze coloniali.

Yohannes il tigrino è a suo agio tra queste pietraie. Mentre spazia con lo sguardo assorto verso est mi immagino che guardi verso Adua, o verso Adigrat, o verso Axum, cittadine storiche a pochi chilometri dal confine, abitate da tigrini come lui. Non glielo chiedo ma mi sembra che Yohannes interpreti quella frontiera come una limitazione: mi indica con  l’indice della mano proteso la direzione di città che non si vedono, mi informa sulle distanze, sulle località caratteristiche, sui collegamenti stradali come se quella linea di confine non gli impedisse di conoscere anche la parte non eritrea di quell’altopiano, di considerarla ugualmente sua.
Per “spezzare” l’altopiano gli italiani adottarono la stessa collaudata strategia delle altre potenze coloniali europee: arruolarono tra le fila del loro esercito migliaia di ascari eritrei che spedirono a combattere contro i loro fratelli che vivevano nelle regioni più interne. Non fu facile perchè si trovarono di fronte un’entità culturale solida con una storia millenaria alle spalle. Ci volle quasi un secolo e l’uso di armi micidiali come gli aerei da guerra, l’artiglieria e sopratutto i gas nervini, già allora banditi dalle convenzioni internazionali, prima che il regime di Mussolini si impadronisse, per soli sei anni e in modo precario, di tutto l’altopiano. Il resto è storia recente, o quasi.

   Yohannes prima di rimontare in auto e di sedersi al volante si fa promettere che quando andrò ad Axum lo chiamerò come autista. Constato, ancora una volta, che è informatissimo: mi parla con dovizia di particolari di questa città mitica, capitale dell’antico impero axumita. Non gli chiedo se sa che gli italiani, come tutti i conquistatori, hanno cercato anche di cancellare e rubare quella storia all’altopiano. Lo hanno fatto in modo simbolico trasportando in Italia, nel 1937, il più alto e pesante degli obelischi di Axum che testimoniano le vestigia di una delle più antiche civiltà d’Africa. Per restituirlo ci hanno impiegato 67 anni.



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