Raffaele Masto
Reportage Angola
Dalla Ilha, di notte, la città ha il suo fascino:
i grattacieli del centro, illuminati dalle insegne pubblicitarie si riflettono
sul mare calmo, i lampioni del lungomare, con la loro tenue luce, accendono di
riflessi la sabbia color ocra della spiaggia mentre in un gioco di ombre si
intravvedono piccole imbarcazioni cullate dalle onde e dalla fresca brezza che
rinfresca uomini e cose dopo il caldo afoso e umido della giornata. La città
sembra riposare tranquillamente adagiata sul mare.
Poi quando arriva la luce del giorno l’incantesimo
svanisce e Luanda, la capitale dell’Angola, si rivela per quello che è: una
città in rovina, invasa dalla spazzatura prodotta dai suoi oltre quattro
milioni di abitanti. Sulla spiaggia del lungomare, un tempo la vetrina della
città, le imbarcazioni che di notte ondeggiavano quiete sospinte dalle onde si
rivelano essere sgangherati gusci di legno o addirittura relitti mezzo
affondati.
L’unica isola felice di questa città. Oltre al
minuscolo centro illuminato, è la Ilha, una lingua di terra che si allunga
proprio davanti al lungomare formando una calma laguna che rompe i cavalloni
dell’Atlantico e dà a Luanda l’aspetto di una città mediterranea. Qui, sulla
Ilha, ci sono i locali per i bianchi e l’esigua èlite locale: discoteche con la
musica occidentale dove si può bere caipirinha e cuba libre e ristoranti dai
nomi esotici dove servono pesce e vino portoghese o sudafricano.
Per il resto Luanda è un mostro, una specie di
bubbone cresciuto a dismisura su un corpo minato da una malattia che si chiama
guerra civile, un conflitto che segna la vita dell’Angola dall’indipendenza,
ottenuta nel 1975 dopo oltre un secolo di colonizzazione portoghese, fino ad
oggi.
A scontrarsi sono il governo, egemonizzato
dall’Mpla, Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola, storica
formazione nata dalla lotta per l’indipendenza, e i guerriglieri dell’Unita che
da sempre contendono il potere all’Mpla.
Il risultato di questo confitto è che le città,
unici luoghi sicuri del paese perché controllati dall’esercito, si sono
gonfiate di profughi, i cosiddetti desplaciados,
fuggiti dalle campagne dove erano esposti alle continue scorribande dei
guerriglieri e agli scontri tra questi e i soldati dell’esercito.
Luanda in pochi anni è passata da poco meno di un
milione di abitanti ad oltre quattro e le conseguenze si vedono. Il piccolo
centro che conserva una parvenza di città organizzata è assediato da sterminate
baraccopoli senza luce elettrica, senza fogne, veri e propri gironi
dell’inferno dove la densità abitativa è allucinante. Le baracche, poco più che
capanne fatte di fango, lamiere arrugginite e legni marci, sono costruite
dappertutto, anche sugli enormi cumuli di terra e spazzatura che, nel corso
degli anni, sono diventate colline malferme che speso, quando piove, smottano
seppellendo decine di persone.
Quello delle baraccopoli è un popolo di disperati:
non hanno nulla e vivono nella promiscuità più assoluta con tutte le
conseguenze del degrado che l’ammassamento in queste città di rifiuti comporta.
La fuga dai loro luoghi di origine ha smembrato le famiglie che in Africa sono
l’unità funzionale della società, un legame profondo senza il quale l’individuo
è un paria. Così ci sono centinaia di migliaia di meninos de rua, bambini di strada abbandonati a se stesi che vivono
di espedienti, di piccoli furti e muoiono prima ancora di diventari adulti di
malattie banali o di Aids. Molti di questi bambini sono handicappati, saltati
sulla grande quantità di mine che infesta il territorio o colpiti dalla
poliomelite.
Se ci si avventura in una di queste baraccopoli se
ne incontrano a decine. Leonardo Nato è uno di loro, ma nessuno lo chiama più
con il suo vero nome, per tutti è Mutila, abreviativo di mutilado, mutilato. Un soprannome crudele ma azzeccato. Ha dodici
anni e un sorriso espressivo con i denti bianchi smaglianti che risaltano sulla
carnagione scura. Non esita a raccontare quello che ricorda della sua storia:
“Quando i guerriglieri hanno attaccato il treno sul quale viaggiavo c’è stata
una gran confusione. Sono caduto e il convoglio è passato sul mio piede. Da
allora non sono più Leonardo, ma Mutila”. Parla quasi senza emozione, come se
raccontasse la storia di un'altra persona. Poi, quando si stanca di rievocare
ricordi tristi, si alza puntando il moncherino calloso nella terra sporca della
baraccopoli. Gli altri ragazzini gli si fanno intorno, scherzano un po’
manescamente come tutti i bambini del mondo, poi corrono via. Lui, il corpo
magro e agile infilato in una consunta maglietta blu di una squadra di calcio,
sta loro dietro spiccando grandi salti sul piede sano. Questi ragazzini vivono
in bande funzionali alla sopravvivenza nel mondo difficile della baraccopoli.
Per ora Mutila tra loro è un boss: gioca al calcio - in porta - dice - perché
le parate gli vengono meglio - e balla la capoeira,
la caratteristica danza acrobatica angolana, ma prima o poi si ammalerà, magari
anche di una malattia banale, e verrà inesorabilmente sospinto ai margini. Una
condanna a morte perché non sarà più in grado di procurarsi da vivere. Avrebbe
bisogno di una protesi, una soluzione semplice e poco costosa che l’Angola
della guerra non riesce a dargli.
Come Mutila gran parte della popolazione non ha
speranze di veder terminare la guerra, almeno a breve termine. Il conflitto
sembra in una situazione di stallo, funzionale a tutti: da una parte il governo
controlla le città e le regioni petrolifere, soprattutto l’ènclave di Cabinda,
nel nord, che galleggia quasi letteralmente su un mare di greggio. Inoltre la
guerra consente al presidente Eduardo Dos Santos di non mettere mai in
discussione, con le elezioni, il suo entourage e la classe politica che governa
il paese da 25 anni. Dall’altra i guerriglieri dell’Unita e il loro leader
Jonas Savimbi controllano le remote regioni dell’est, dove ci sono i diamanti,
tra i più pregiati e puri del mondo. Queste pietre escono di contrabbando con
la connivenza dei gruppi dirigenti di molti paesi della regione e vengono
usati, oltre che per finanziare la guerriglia, per arricchire leader e boss
locali.
Così poche migliaia di guerriglieri tengono in
scacco un intero paese limitandosi a sferrare attacchi a villaggi isolati e a
bloccare i collegamenti tra le città assaltando i pochi convogli di militari e
civili che si avventurano lungo le strade. Uno sforzo bellico minimo che, con
l’aiuto delle mine, rende impraticabile il territorio, paralizza l’agricoltura
e spinge sempre più l’Angola in una drammatica economia di guerra che ogni
giorno fa salire i prezzi alle stelle.
La stragrande maggioranza degli angolani non ha
nessuna speranza di vivere all’interno del circuito dell’economia ufficiale che
per loro è irraggiungibile, basta pensare che una bottiglia di acqua minerale
costa poco più di due dollari. A salvarli dalla fame c’è la fantasia e
l’economia di sussistenza il cui simbolo, a Luanda, è il mercato di Roque
Santeiro, il più grande di tutta l’Africa. Prende curiosamente il nome da una
telenovela ambientata ai giorni nostri in Brasile e il cui eroe è una specie di
Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Secondo stime attendibili è
frequentato tutti i giorni da almeno un milione di persone. Ad entrarci si ha
un attimo di smarrimento. Il primo senso ad essere colpito è l’olfatto: un
odore di putridume misto a quello di spezie, di fogna, di olio di palma fritto,
di sudore. Poi è la volta dell’udito: un rumore continuo prodotto dal vociare
di centinaia di migliaia di persone che si mescola a quello delle radio con il
volume a palla. Una volta dentro si ha l’impressione di essere inghiottiti da
una massa informe di materia, un magma che si muove di moto proprio, che pulsa,
che annulla la volontà dei singoli. A Roque Santeiro si può comprare e vendere
di tutto, dalle cipolle ai frigoriferi, dai più svariati pezzi di ricambio
delle auto alle armi, il tutto a prezzi enormemente inferiori a quelli
ufficiali. L’economia reale dell’Angola passa da Roque Santeiro tanto che il
cambio tra il Kwanza, la moneta locale, e il dollaro viene stabilito qui tutte
le mattine, naturalmente senza brooker ne agenti di cambio.
Per il resto a sfamare le grandi masse di persone
che assediano le città ci pensano le agenzie umanitarie internazionali delle
Nazioni Unite. Il Pam, Programma Alimentare Mondiale organizza tutti i giorni
aerei carichi di aiuti che raggiungono i principali centri. Sono voli a rischio
perché nei mesi scorsi i guerriglieri dell’Unita ne hanno tirati giù parecchi.
Imbarcarsi su uno di questi velivoli è un brivido: il pilota non può effettuare
un atterraggio graduale perché ciò lo porterebbe a volare a bassa quota sulle
campagne intorno alle città di destinazione dove potrebbero esserci commando di
guerriglieri con la contraerea. Deve perciò arrivare in quota proprio sul
centro abitato e poi scendere a spirale, una manovra che fa arrivare a terra
con le orecchie tappate e l'impressione di avere passato mezza giornata sul più
vorticoso degli otto volanti.
In compenso il Pam in Angola è una sorta di mito.
Un sacerdote racconta che nella scuola della sua missione i maestri che hanno
chiesto ai bambini dove cresce il miglio, l'alimento base della popolazione, si
sono sentiti rispondere che cresce al Pam. Una risposta che fa sorridere, ma
che è drammatica nello stesso tempo. Come dire che i più piccoli, che sono
vissuti sempre nella guerra, non contemplano nemmeno che si può vivere del
lavoro nei campi.
Gran parte dei voli umanitari sono diretti a
Huambo, vera e propria città martire all'interno del paese che è da anni
assediata dai guerriglieri e circondata da migliaia di mine anti-uomo. A
condannarla è la sua posizione strategica: se cadesse in mano ai guerriglieri
potrebbe diventare una importante base logistica per sferrare un attacco alla
capitale Luanda e se l'esercito vi si potesse consolidare si troverebbe sulla strada
che porta alla regione dei diamanti. Qui, negli anni passati, si è combattuto
duro e se ne vedono ancora i segni: non c'è un edificio che non abbia le pareti
bucherellate dai colpi dei fucili mitragliatori o sventrate dai proiettili dei
mortai. Oggi all'interno del centro abitato non si combatte più ma su buona
parte della popolazione sono evidenti i segni della denutrizione e l'atmosfera
è quella cupa di un grande campo di concentramento dal quale non ci sono
speranze di fuga.
A Luanda almeno c'è il mare e la speranza trova il
modo di esprimersi. Sulla strada che porta alla Ilha, su un muro diroccato
qualcuno ha scritto con la vernice: "Forca
Angola tudo pasa", forza Angola, tutto passa. Non si sa chi l'ha scritto ma
evidentemente qualcuno ha pensato bene di rendere pubblico un pensiero che,
nonostante tutto, non è ancora stato estirpato dal profondo del suo essere.
Ogni giorno i disperati delle baraccopoli ci passano davanti e buttano l'occhio
su quella scritta di vernice, poi tirano dritto. Forse, prima che sia troppo
tardi, Mutila riuscirà ad avere una protesi.
BOX
ANGOLA
L'Angola, grande quattro volte l'Italia, è uno dei
paesi più ricchi del pianeta. Se non ci fosse la guerra e se la ricchezza fosse
distribuita equamente i suoi soli dodici milioni di abitanti sarebbero una
delle popolazioni più appagate del pianeta. Oltre a diamanti e petrolio il
sottosuolo è ricco di materie prime, strategiche e non, e il territorio è uno
dei più fertili del mondo.
L'Angola è indipendente dal 1975. La guerra civile
scoppiò subito dopo che i colonizzatori portoghesi se ne andarono. Negli anni
ottanta, nel pieno della guerra fredda sul suo territorio intervennero
contrapposte le truppe del sudafrica dell'apartheid e, da oltre mare, alcuni
contingenti di soldati cubani. Nel confronto tra Est e Ovest, l'Angola faceva
gola a tutti, sia agli Stati Uniti che all'Unione Sovietica. Alla fine della
guerra fredda, negli anni novanta, si andò vicini alla pace: nel 1992, con la
mediazione dell'Onu, vennero indette elezioni nelle quali il governo ottenne il
60 per cento dei consensi e i ribelli dell'Unita il quaranta. Il leader dei
guerriglieri, Jonas Savimbi, non riconobbe il risultato della consultazione e
riprese la guerra civile.
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